Il caso Regna e l’Italia che arretra: quando la Giustizia assolve la violenza

Dal caso Regna alle sentenze minimizzanti, l’Italia resta intrappolata in stereotipi che finiscono per degradare le vittime.

Il caso Regna e l’Italia che arretra: quando la Giustizia assolve la violenza

Il pestaggio di Lucia Regna non è stato ritenuto abbastanza grave da mandare in carcere chi l’ha ridotta in fin di vita. Sette minuti di colpi, il volto sfigurato e ricostruito con ventuno placche di titanio, un occhio compromesso per sempre. Eppure il tribunale di Torino ha escluso i maltrattamenti, condannando l’ex compagno a un anno e mezzo con la condizionale. Nelle motivazioni si parla di «sfogo riconducibile alla logica delle relazioni umane», attribuendo alla vittima la responsabilità di aver «sfaldato un matrimonio ventennale».

Non solo il caso Regna, il filo rosso delle sentenze minimizzanti

Non è un incidente isolato. È un linguaggio che ritorna. Quando Salvatore Montefusco uccise moglie e figlia all’uscita dal tribunale, la Corte d’Assise parlò di «crimine umanamente comprensibile», riducendo la pena a trent’anni. Nel 2018, a Bologna, la Corte d’Appello dimezzò la condanna all’assassino di Olga Matei: la «tempesta emotiva» scatenata dalla gelosia venne considerata un’attenuante, fino all’intervento della Cassazione che dovette ricordare che gli stati passionali non riducono la responsabilità penale. Nel 2017, ad Ancona, due imputati per stupro furono assolti perché la ragazza era giudicata «troppo mascolina» per essere credibile. Anche in quel caso la Cassazione annullò, ma intanto la vittima aveva dovuto subire una seconda umiliazione.

Gli esempi recenti non mancano. A Torino, nel 2022, una corte parlò di «invito a osare» per giustificare un presunto consenso, solo perché la porta del bagno era rimasta socchiusa. A Roma, nel 2023, un operatore scolastico fu assolto perché la «palpata» a una studentessa sarebbe durata «pochi secondi». A Firenze, due carabinieri condannati per lo stupro di due studentesse americane hanno visto le pene dimezzate in appello: le giovani erano ubriache, quindi «non credibili». Casi di normalizzazione giudiziaria che ridimensiona i fatti, riportandoli dentro la cornice dei rapporti privati, cancella la parola femminicidio e la sostituisce con “raptus” o “dramma familiare”.

Cultura patriarcale e parole della politica

Il problema è sistemico. La Corte europea dei diritti umani ha condannato più volte l’Italia per l’uso di stereotipi sessisti nei processi. La Commissione parlamentare sul femminicidio ha documentato decisioni che riducono la violenza a «relazione turbolenta», occultando la struttura di potere che porta all’aggressione. Le statistiche sono implacabili: nel 2022 le donne uccise in Italia sono state 125, il 39% di tutti gli omicidi. Nel 91% dei casi in cui il partner uccide, la vittima è donna. Eppure, nei tribunali, i colpi diventano «pugni», le coltellate «gesti dettati dall’amarezza».

A rendere il terreno ancora più fertile sono le parole della politica. Ignazio La Russa ha parlato di «impeto di rabbia» per descrivere un femminicidio. Vittorio Sgarbi ha definito lo stalking «una delle forme di corteggiamento». Nella Lega a più riprese si riconducono i femminicidi all’immigrazione, quando i dati del Viminale mostrano che più dell’80% degli omicidi avviene in ambito familiare. E mentre Giorgia Meloni in pubblico invoca la difesa delle donne, nei fatti il governo continua a proporre misure punitive senza investire su centri antiviolenza, educazione affettiva, formazione della magistratura.

In Europa, la distanza si misura in leggi. La Spagna ha da vent’anni una normativa organica sulla violenza di genere che unisce prevenzione, protezione e pene. L’Italia resta indietro: l’indice europeo di uguaglianza di genere ci colloca al 14° posto, sotto la media. Ogni volta che un tribunale assolve, derubrica, attenua, non è solo un verdetto: è un segnale politico e culturale. È la conferma che nel Paese in cui fino al 1981 esistevano ancora i delitti d’onore, la tentazione di giustificare la violenza maschile è dura a morire.

Lucia Regna, oggi, legge le motivazioni con la sua psicologa. Le resta un volto sfregiato e la sensazione di essere stata processata lei, non chi l’ha massacrata. È la stessa ferita che accomuna centinaia di donne. Ed è la misura di un’Italia che continua a confondere il dolore con l’alibi, la violenza con lo sfogo, la giustizia con la comprensione.