Il grande bluff dell’accesso agli atti. Al Senato la trasparenza è un flop. Richiesta di un ex dipendente dei fittiani di Cor. Ma dopo i 30 giorni previsti non è arrivata risposta

Che il regolamento generale per l’accesso agli atti amministrativi del Senato, adottato tre mesi fa con nove anni di ritardo rispetto a Montecitorio, facesse acqua da tutte le parti lo aveva scritto proprio La Notizia il 22 giugno scorso. Citando tutti i casi in cui quel provvedimento prevede che possano essere rifiutate le richieste di accesso agli atti della vita di Palazzo Madama, non solo ai comuni cittadini ma anche agli stessi senatori. Si va dai pareri legali “acquisiti nel corso dell’attività amministrativa” ai documenti contenenti informazioni “di carattere psico-attitudinale” fino ad arrivare a qualsiasi atto che riguardi la vita delle persone, la sicurezza delle sedi, la riservatezza di gruppi, imprese, comitati, associazioni che hanno un legame “diretto o indiretto” col Senato. Per gli atti di competenza di un organo politico il regolamento prevede che il responsabile del procedimento provveda “tempestivamente ad informare l’organo politico competente per le conseguenti determinazioni”.

SOLO SILENZIO. E ora arriva la prova del nove. A farne le spese, un ex dipendete di Cor (Conservatori e Riformisti italiani), il gruppo del partito di centrodestra nato nel 2015 per iniziativa dell’ex governatore della Puglia Raffaelle Fitto e altri esponenti fuoriusciti da Forza Italia. L’ex dipendente che vanta un crediti da lavoro nei confronti del gruppo, l’8 agosto scorso ha inoltrato richiesta al Senato di accesso agli atti relativi al Rendiconto del gruppo relativo ai primi tre mesi del 2017 (la compagine dei fittiani fu sciolta a Palazzo Madama il 1° aprile di due anni fa perché venne meno il requisito minimo di dieci senatori) e al trasferimento dei soldi dal bilancio del Senato al gruppo. Ma, sebbene siano decorsi i 30 giorni previsti, non ha ancora ottenuto alcuna risposta.

Alla faccia della trasparenza targata Maria Elisabetta Alberti Casellati. La vicenda del gruppo Cor era stata ricostruita da La Notizia il 23 maggio. Il rendiconto di Cor relativo ai primi tre mesi del 2017, contrariamente a quanto prevede il Regolamento del Senato, non è mai stato pubblicato: i senatori questori non hanno potuto dargli il via libera. E questo perché a quel rendiconto il gruppo non ha mai allegato la relazione della società di revisione legale che verifica “la regolare tenuta della contabilità”. “Un equivoco”, ci aveva spiegato a suo tempo l’ex tesoriere del gruppo Lucio Rosario Tarquinio, garantendo che il rendiconto – “quello che è senza spese” – sarebbe stato consegnato a fine maggio. “La revisione ci dev’essere sempre anche se non c’è movimentazione di spesa”, aveva spiegato il Servizio per le competenze dei parlamentari del Senato.

BUCO CERTIFICATO. Le posizioni dei collaboratori di Cor relative al 2017 sono state sanate in alcuni casi dai senatori che si sono autotassati. Il contributo che ciascun gruppo parlamentare riceve per ogni senatore ammonta a circa 59 mila euro, considerando che i senatori Cor nel 2017 sono stati operativi tre mesi e che erano in dieci, hanno ricevuto all’incirca 147 mila euro in quel trimestre. Dove sono finiti quei soldi? Come mai i senatori hanno dovuto pagare di tasca propria i dipendenti? Rimane aperta peraltro la posizione dell’ex dipendente che ha fatto ultimamente richiesta al Senato di accesso agli atti. Nella sua certificazione unica 2018 per i redditi percepiti nel 2017 si attesta il pagamento del Tfr maturato per una somma di 3.113,13 euro ma in realtà quella somma non è mai stata corrisposta. Cosa ne pensa il presidente del Senato?