Oltre 850 civili sono stati uccisi nel solo mese di maggio in Burkina Faso, Mali e Niger da gruppi jihadisti affiliati allo Stato Islamico e ad al-Qaeda. A lanciare l’allarme è l’Acled (Armed Conflict Location and Event Data), un’organizzazione indipendente che monitora la violenza politica in tutto il mondo. Secondo l’analisi, rilanciata da Reuters, si tratta di una delle peggiori ondate di violenza nella storia recente del Sahel, che segna un drammatico salto rispetto ai circa 600 civili uccisi nei cinque mesi precedenti.
Gli attacchi registrati tra maggio e giugno rivelano un cambiamento di strategia da parte dei gruppi islamisti armati. Non più soltanto attentati o incursioni in zone rurali, ma vere e proprie battaglie contro le forze armate locali, spesso con esito favorevole per gli insorti. Il Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Jnim), legato ad al-Qaeda, ha lanciato in Mali oltre una dozzina di assalti contro postazioni militari, rivendicando – nei propri comunicati – l’uccisione di oltre 400 soldati. Sebbene le cifre non siano confermate, il silenzio della giunta militare maliana, che non ha fornito alcuna dichiarazione nemmeno dopo l’attacco del 1° giugno alla base di Boulkessi, lascia intendere la gravità della situazione.
Secondo gli analisti, il Jnim ha ormai superato la fase di guerriglia e mira al controllo di intere aree strategiche, in particolare attorno ai centri urbani, nel tentativo di accerchiare le capitali saheliane e instaurare amministrazioni parallele basate sulla Sharia. Il progetto è ambizioso: costruire uno Stato jihadista che si estenda dal Mali occidentale al Niger meridionale, fino al nord del Benin. A guidare il gruppo è Iyad Ag Ghaly, ex ribelle tuareg diventato jihadista negli anni Duemila, oggi ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità.
Il jihadismo rialza la testa nel Sahel: a maggio oltre 850 civili uccisi da Isis e al-Qaeda
Il Jnim conta tra i 6.000 e gli 8.000 combattenti attivi e rappresenta oggi la principale forza jihadista dell’Africa occidentale. I suoi finanziamenti derivano da una fitta rete di attività illegali: rapimenti, traffico di bestiame, estorsioni, sfruttamento minerario e imposizione della zakat, una tassa di protezione applicata nei territori sotto il suo controllo. Rispetto ad altri gruppi estremisti, la versione di Sharia imposta dal Jnim appare meno brutale: niente lapidazioni o mutilazioni, ma un controllo sociale molto efficace, che in alcuni casi ha portato persino alla sedazione di conflitti interetnici, conquistando il consenso di parte della popolazione.
A maggio, i jihadisti hanno preso Djibo, capoluogo della provincia settentrionale del Burkina Faso con oltre 60.000 abitanti, e poco dopo anche Diapaga, nell’est del Paese. Secondo Heni Nsaibia, analista di Acled, a Djibo sarebbero state sequestrate munizioni per un valore di circa 3 milioni di dollari. Cruciale si è rivelata la capacità di reclutamento tra le comunità emarginate, in particolare tra i Fulani, pastori nomadi presenti in tutto il Sahel, spesso vittime di discriminazioni e violenze.
L’espansione del conflitto verso sud, fino al nord del Benin e al Togo, segnala un’evoluzione preoccupante. I Paesi costieri del Golfo di Guinea – finora relativamente al riparo dal conflitto – potrebbero presto diventare nuovo fronte caldo del jihadismo africano. Una minaccia crescente, che rischia di destabilizzare l’intera regione e che, secondo gli esperti, richiede una risposta internazionale più decisa e coordinata.