A Torino, nel 1982, Giuliano Ferrara chiese che un concerto per la pace fosse dedicato ai palestinesi massacrati a Sabra e Shatila. Gli fu negato. Ferrara, allora comunista, reagì con tale veemenza che lasciò il Pci. La sua era una posizione chiara: solidarietà alle vittime palestinesi e condanna di quello che l’Onu avrebbe definito “un atto di genocidio”. L’episodio, documentato e pubblico, è l’atto fondativo della sua rottura con la sinistra.
Oggi lo stesso Ferrara accusa di antisemitismo chi chiede la fine della guerra a Gaza, chi denuncia le decine di migliaia di morti civili, chi invoca il diritto internazionale. “Liberare Gaza anche con le bombe”, ha detto in una fiaccolata nel 2023. In mezzo, un travaso ideologico che l’ha portato a fondare Il Foglio, santuario italiano del pensiero neoconservatore.
Ma la traiettoria di Ferrara non è un caso isolato. È la parabola di un’intera destra italiana che, da filo-palestinese e anti-sionista, è diventata ferocemente filoisraeliana.
Tra fiamma e kefiah
La destra post-fascista italiana nasce filo-palestinese. Non per afflato umanitario, ma per coerenza ideologica: l’anti-sionismo era il riflesso dell’anti-americanismo. I documenti non mancano: volantini del Fronte della Gioventù negli anni ’80 chiedevano sanzioni contro Israele e il riconoscimento dello Stato palestinese. “Fermare il massacro”, si leggeva. Si inneggiava alla “stirpe guerriera” palestinese.
Giorgia Meloni militava in quegli ambienti: in un video del 1996 compare nella sede di Azione Studentesca con un manifesto palestinese alle spalle. In quegli stessi anni, anche Ignazio La Russa e Galeazzo Bignami frequentavano gli ambienti della destra giovanile che vedeva nell’Olp di Arafat un’alleata contro il capitalismo sionista e il comunismo internazionale.
La trasformazione è stata radicale. Gianfranco Fini volò a Gerusalemme nel 2003 e definì il fascismo “male assoluto”. Fu anche un’operazione geopolitica: la destra doveva diventare presentabile per gli Stati Uniti. L’effetto? La retorica dell’“alleato strategico” sostituì quella del “popolo oppresso”. La Meloni, oggi, è l’erede diretta di quella svolta. Ha mantenuto la fiamma nel simbolo e riposto la kefiah nel cassetto.
Ieri Palestina, oggi premi da Israele
Il cambiamento non è solo teorico. È concreto. Nel 2014 Meloni scriveva su Twitter: “Un’altra strage di bambini a Gaza. Nessuna causa è giusta quando sparge il sangue degli innocenti”. Oggi definisce “controproducente” il riconoscimento della Palestina e firma memorandum militari con Israele. Nel 2025 ha votato contro una risoluzione Onu per il cessate il fuoco. La Russa, da sempre nella tradizione missina, oggi partecipa a fiaccolate “per le vittime israeliane” senza mai citare Gaza. Bignami oggi condanna chi, come l’amministrazione di Bologna, ha esposto fuori dal Comune la bandiera palestinese “alimentando divisioni e faziosità pericolose”.
Poi c’è Salvini, premiato come “amico di Israele” il 22 luglio 2025, lo stesso giorno in cui a Gaza si contavano 380 morti in un solo bombardamento. Ha dichiarato che “ogni equiparazione tra le vittime è indecente” e ha definito le manifestazioni pacifiste “fiancheggiamento al terrorismo”. Antonio Tajani, che nel 2002 condannava gli insediamenti israeliani e difendeva il diritto al ritorno dei rifugiati, oggi invoca “neutralità” e giustifica i bombardamenti come autodifesa. La coerenza si è spenta sotto i riflettori delle conferenze stampa internazionali.
L’antisemitismo a orologeria
Il capolavoro retorico è l’uso dell’antisemitismo come clava politica. L’antisionismo viene sistematicamente equiparato all’antisemitismo, sulla scorta della definizione Ihra, contestata da più di 40 studiosi internazionali e anche da esperti delle Nazioni Unite. La critica a Israele è diventata un reato morale. Le manifestazioni pacifiste sono trattate come minacce. Chi porta una kefiah è guardato con sospetto. Il dissenso è neutralizzato come odio. Chi chiede la fine dei massacri a Gaza diventa automaticamente complice di Hamas.
Eppure, chi oggi si erge a sentinella contro l’antisemitismo ha radici ideologiche in partiti che della discriminazione razziale hanno fatto la propria identità. Dalla Rsi che deportava ebrei ai lager, al MSI di Giorgio Almirante, redattore della rivista La Difesa della Razza. Non è solo una questione di memoria. È una riscrittura della storia. Una narrazione che, cancellando il passato, assolve il presente. E lo arma.
Il sostegno a Israele non è diventato più solido. È diventato più utile. È il lasciapassare per il potere, la prova di affidabilità per chi ha bisogno di nascondere un passato ingombrante. In questa torsione cinica, la tragedia di Gaza è solo una cornice da ignorare. Il dolore ebraico, usato come scudo. I palestinesi, ridotti a danno collaterale. L’ipocrisia ha assunto una forma così perfetta da farsi identità politica.
La vera vergogna non è nelle bandiere esposte in piazza, ma nei volti che ieri gridavano “Palestina libera” e oggi tacciono, o peggio, accusano chi lo fa. L’ipocrisia non uccide come le bombe. Ma serve a giustificarle. E continua a farlo. Ogni giorno.