La tv che racconta il crimine cattura gli ascolti

Di Gianluca Schiavone

Se tentatissimo un conteggio a braccio delle fiction che da anni adottano il tema della criminalità cercando di raccontarcelo nelle sue innumerevoli sfumature, sfonderemmo la barriera delle decine avvicinandoci a passo deciso verso quella delle centinaia. Chiunque ci ha provato. Chiunque ha ceduto alla tentazione di confezionare un prodotto in grado di dare una fisionomia scenica ad un fenomeno brutalmente reale. Preferenze personali e tifi sfrenati a parte, ciò che accomuna da sempre tutti questi esperimenti di sceneggiatori rodati o di registi in erba è il trascinarsi dietro un’ombra prepotente: la polemica. Sì, perché a volte il telespettatore italiano è personaggio parecchio singolare.

La tv del dolore
Nonostante ascolti auditel sempre considerevoli, non mancano mai le voci perentorie di alcuni giustizieri dal telecomando affilato che a gran voce sentenziano: ”Scandalosa. Questa spettacolarizzazione del dolore e del male è scandalosa”. Ed ecco la parte migliore. In questi casi, sfidando ogni legge della coerenza, ci si ritrova sempre dinanzi a due tipi di “reazioni del giorno dopo”: quelle della mattina al bar, in cui il cappuccino si beve con cornetto ed entusiasmo condiviso per quanto visto la sera prima in tv; e quelle del bigottismo pseudo pedagogico per cui molti, convinti di darsi un tono illuminato, rinnegano quanto precedentemente celebrato al bar fra gli amici caciaroni di sempre e si scagliano contro “l’ennesimo tentativo della tv di fornire messaggi sbagliati e pericolosi”. Al netto di considerazioni antropologiche spicciole e senza scomodare complessi studi sociologici, il successo della scelta della criminalità come protagonista di un racconto in immagini si rivela indiscutibilmente qualcosa di tangibile ed evidente. Siamo onesti. Il profilo del telespettatore medio non può dirsi davvero completo se non vanta, nel suo bagaglio di esperienze da palinsesto, almeno una puntata di Gomorra: la serie, una scena madre de La piovra o uno scambio di battute Rosi Abate/Calcaterra del celebre Squadra Antimafia. Le sceneggiature spesso convincono, la serialità aiuta, il fascino del male e la curiosità fanno il resto. Questo discorso non vale soltanto per le fiction, ma anche per alcuni programmi tv che ormai siedono comodi negli annali del tubo catodico.

Il ritorno della Leosini
Sabato 13 settembre, intorno alle 23:30, tornerà in onda su Rai3 la tredicesima edizione di Storie maledette, la creatura ideata, condotta e portata al successo dalla professionalità di Franca Leosini. Niente trame costruite ad arte o tentativi di indurre il cardiopalma a tutti costi, ma solo una brava conduttrice acuta conoscitrice dell’animo umano, un caso di cronaca nera ricco di ombre, qualche veloce filmato a scopo informativo, uno scambio di battute con il protagonista della storia in esame destinato, spesso, a creare più interrogativi ed emozioni contrastanti di qualsiasi sceneggiatura. Eppure anche qui il successo è assicurato. La realtà raccontata dalla realtà, che tutto può indurre tranne che una tiepida indifferenza. Nessuna spettacolarizzazione del male: solo puro male raccontato da chi, confessandolo o meno, ha finito per infliggerlo. Il taglio giornalistico è qualcosa di parecchio differente dall’ingranaggio scenico eppure, in entrambi i casi, la fascinazione del telespettatore e la curva degli ascolti in costante crescita sono risultati garantiti. Cosa dedurre da tutto questo? Il punto è ciò che si decide di canalizzare quando si è davanti alla tv, non il canale che si sceglie di guardare. È una questione di spirito con cui ci si pone davanti al problema, non di modalità con cui ce lo raccontano. Che sia un programma di approfondimento o una serie cult noir, il crimine resta il crimine e il disprezzo per ciò che rappresenta resta disprezzo, anche ciò se dovesse passare prima attraverso un percorso emotivo fatto di riflessioni a tine fosche. Se la visione di tali disagi umani dovesse mai generare sensazioni vicine a qualche forma di approvazione, il problema non riguarderebbe certo un’altrui scelta editoriale, ma solo una propria totale mancanza di sensibilità. E a quel punto la soluzione del caso sarebbe da ricercare sul lettino dello psicanalista, più che sul divano di casa.