Matteo Salvini l’aveva messa semplice: «La prima legge che il mio governo cancellerà è la Fornero», con l’impegno personale a farsi «spernacchiare» se entro un anno non fosse avvenuto. Oggi, agosto 2025, quella frase è un reperto storico: la Fornero resta il regime ordinario con cui si va in pensione. Le norme e i numeri non lasciano scampo.
Il triennio delle deroghe alla legge Fornero
Al governo nel 2018–2019, la “cancellazione” si è tradotta in una deroga a tempo. Con il Dl 4/2019 arrivò Quota 100 (62+38) valida per il solo triennio 2019–2021: un binario parallelo, non un’abolizione. A consuntivo, le domande accolte sono state poco meno di 380mila contro le circa 678mila stimate; la spesa si è fermata a 23,2 miliardi rispetto ai 33,5 stanziati, con 10,3 miliardi “risparmiati” perché la platea è stata molto inferiore al previsto. La riforma del 2011, intanto, è rimasta in piedi come cornice ordinaria.
La ritirata con Quota 103
Con Meloni a Palazzo Chigi e Salvini vicepremier, la parola «abolizione» è evaporata. È nata Quota 103 (62+41), ma in versione asciutta: calcolo interamente contributivo, tetto all’assegno fino a quattro volte il minimo fino ai 67 anni, finestre più lunghe (7–9 mesi). L’uso è rimasto modesto e via via più selettivo, con volumi di domanda inferiori alle attese; nel frattempo l’ordinario è rimasto quello della Fornero. La sequenza 100–102–103 non ha sostituito la riforma del 2011: ha prodotto deroghe via via più restrittive e a scadenza.
La bandiera identitaria è rimasta sullo sfondo: Quota 41 «per tutti». Non è arrivata per una ragione semplice: costa. Le stime più citate quantificano oltre 65 miliardi in nove anni. Da qui gli slittamenti: dall’«entro un anno» al «fine legislatura», fino alle versioni “light” con ricalcolo contributivo che tagliano gli assegni pur di poter dire «l’abbiamo fatta». È il riconoscimento, tra le righe, che l’obiettivo integrale è incompatibile con i conti pubblici e con i vincoli di bilancio.
La narrazione è scivolata dall’«azzerare» allo «smontare pezzo per pezzo», fino al «abbiamo fermato la Fornero» dopo Quota 103: formule che non corrispondono agli atti. In Gazzetta Ufficiale l’architettura Fornero resta intatta nei suoi cardini: età, aspettativa di vita, calcolo. Ape sociale e misure selettive per lavori gravosi hanno tenuto insieme pezzi di consenso, ma non sostituiscono una riforma complessiva. È la differenza tra politica degli slogan e politica dei saldi: la prima riempie i talk show, la seconda fa quadrare i conti.
Il punto giuridico e quello politico
Il punto giuridico è netto: la Legge Fornero non è stata abrogata né sostituita. Quello politico pure: la promessa «Azzero la Fornero» è rimasta slogan. A fare testo sono gli atti e i bilanci, che raccontano altro: deroghe a termine, adesioni inferiori alle attese, un sistema ricondotto verso l’assetto del 2011. E quella sfida al pubblico – «se tra un anno non l’avremo fatto siete titolati a spernacchiarmi» – oggi suona come un’autocertificazione del fallimento.
«Stop Fornero» è rimasto uno striscione buono per i palchi; il diritto positivo racconta altro. Le “quote” hanno agito come valvola temporanea, poi sempre più ristretta, senza scardinare la legge del 2011. Quota 41 universale si è rivelata economicamente insostenibile nel perimetro dato. E lo “spernacchio” evocato da Salvini, alla prova dei fatti e delle leggi, è diventato un’autocertificazione del fallimento: chi promette l’abolizione totale e consegna deroghe con assegni più bassi certifica da sé il valore attuale della promessa. Zero o giù di lì.