Minoli a tutto campo: Renzi come Craxi

di Salvatore Merlo per Il Foglio

“Quando dicono che ho sempre bazzicato il potere un po’ mi incazzo”. E il suo bel sorriso, franco e ironico, con gli occhi che sembrano fessure orientali, gli si spegne in volto. “Socialista, la parola mi piace molto”, dice. “Ma mai una tessera di partito”, si irrigidisce. E insomma Giovanni Minoli, che è sempre vissuto di domande, alcune domande quasi non se le fa fare. “Vado per i settant’anni”, riprende. “E di politici nella mia vita ne ho conosciuti moltissimi, quasi tutti li ho conosciuti. Li ho incontrati e intervistati per quarant’anni.
Dunque quando raccontano che ho frequentato il potere, e fanno un’equazione tra la mia carriera e i rapporti personali, mi dispiace sul serio. Ma è così da sempre. E’ la storia della mia vita. Nei giornali in una pagina leggevo: ‘Bravo’, ‘bravo’, ‘bravo’. Poi nell’altra leggevo: ‘Amico di Craxi’. Con tutte le sciocchezze sui salotti, sulle mie frequentazioni”. Genero di Ettore Bernabei, amico di Martelli… “Io sono soprattutto figlio di mio padre, che era un professore di università, un grande avvocato e ha inventato l’arbitrato internazionale.
Vorrei essere giudicato per quello che ho fatto. Non ho mai letto di Scalfari che è genero di Giulio De Benedetti, il direttore della Stampa. Ma solo che è un grande giornalista e che ha fondato l’Espresso e Repubblica. Essere “amici di” o “figli di” non significa niente. Tutti siamo parenti di qualcuno. Non capisco perché per me vale la malizia e per gli altri no”. E mentre parla, Minoli è come chiuso dentro qualche dolore. “Credo che tutto dipenda dal fatto che io ho scelto la televisione, anziché la carta stampata. La tivù è sempre stata considerata un mezzo minore.
Da ragazzo feci una scelta controcorrente all’interno della mia generazione, del mio stesso ambiente. E forse sulle malizie, chissà, sulle cattiverie, ha influito anche il mio carattere. Ho un carattere difficile, dicono. Sono antipatico, non sono mondano, non frequento”. Non si direbbe, obietto. “Sono un perdente di successo”, risponde lui, sorridendo, quasi senza ascoltare. “Ma parliamo di ‘Mix 24′, ti prego, la mia trasmissione radiofonica. Per me è come la resurrezione, sono come l’araba fenice”…

[Siamo seduti a un tavolo d’angolo nella sala interna del ristorante Pierluigi, a piazza dei Ricci, a meno di cinquanta metri dal piccolo appartamento che su via di Monserrato Minoli usa come studio. La sua è una casetta deliziosa, con una piacevole, piccina terrazza sui tetti del centro e un luminoso soggiorno che ricorda la poppa squadrata d’un galeone spagnolo. Mangiamo un roastbeaf affettato a macchina, un’ostia morbida, con poca mostarda. Ma il cibo è solo un contrappunto alla conversazione, mangiamo entrambi pochissimo, Minoli beve un bicchiere di pinot nero. I camerieri si tengono alla larga, con rara discrezione per Roma] …
“A Mix 24 siamo arrivati in tre, Sara Tardelli, Marina Milone e io. Senza di loro non ce l’avrei fatta. Sono le figlie di due campioni del mondo: Marco Tardelli, nel calcio, e Giuseppe Milone nella vela. E si vede nel carattere. Mi sveglio alle 6 e 30, alle 7 e un quarto sono alla Radio, poi alle nove andiamo in onda con Pietrangelo Buttafuoco e Mario Sechi. Ci divertiamo. Ed è strano per degli adulti che non si conoscevano. La trasmissione è un successo”. E mi mostra un grafico, sono gli ascolti. Minoli ha portato con sé anche due articoli del Sole 24 Ore che lo confermano, e un po’ lo celebrano. Mi porge pure un curriculum lungo nove pagine. E’ la sua vita professionale (“se te la racconto io poi sembro un megalomane”).
“A Roberto Napoletano, il direttore del Sole 24 Ore, che mi ha offerto il programma, proposi di portare la televisione in radio”, racconta Minoli. “Così ho trasformato Mixer in un radiodramma d’attualità e storia. Non ci credeva nessuno che avrebbe funzionato. E invece…”. Lo interrompo. Insisto: vorrei che mi raccontasse qualcosa della sua amicizia con Claudio Martelli. “Si può dire che a un certo punto della mia vita ho incontrato il riformismo socialista e mi è piaciuto”. Che ti ricordi di Craxi? “Che veniva ridotto all’idea della Milano da bere. Ma era tutt’altro. Era il riformismo, il made in Italy nel mondo… Aveva un grande fascino, Bettino. Come Matteo Renzi. Anche lui sapeva che per fare la frittata bisogna rompere le uova”.
Allora Minoli finalmente racconta della sua amicizia con Martelli. “Giravamo per Roma di notte, ci addormentavamo sulle panchine di piazza Navona discutendo su come rifare il mondo. Ma il nostro era un rapporto di solidarietà intellettuale. Non di potere. Quando i socialisti erano al comando io facevo il capo struttura alla Rai. Lo sono rimasto per quattordici anni. Tutto il tempo del potere di Bettino. Per questo dico che sono un perdente di successo”. E sorride.
[Minoli si versa un altro bicchiere di vino. Scuote la testa, come indeciso se rompere il sigillo di quella scatola chiusa, ma forse vuota, che è la sua intimità. “Vedi qual è il problema… Bisogna essere sinceri. Io questa intervista non la volevo fare”, mormora, e forse un po’ recita]

Non ti è andata male, su. “E chi dice il contrario. Ma in fondo penso che mi sia andata bene perché nella mia generazione molti si sono messi a sparare. E siamo rimasti in meno. Quelli utilizzabili, quelli che potevano fare qualcosa. Spesso penso che Adriano Sofri sarebbe stato un grande leader generazionale”. Siete amici con Sofri? “Lo stimo molto. Abbiamo avuto un grande amore in comune: Elvira Sellerio. Fui io a mandare Sofri in Bosnia, ai tempi della guerra. Fece dei reportage sublimi. Lui era sotto processo, allora, per l’omicidio Calabresi.
Io mi beccai molte interrogazioni parlamentari per averlo inviato all’estero. Ho sempre promosso con passione il lavoro altrui, ho prodotto e inventato molte trasmissioni. Il potere non c’entra niente con la mia carriera. Se fosse vero quello che dicono, se fossi stato tutte le cose che dicono, sarei già stato direttore generale della Rai. E invece sono diventato direttore di Rai2 soltanto dopo la fine politica di Craxi. E mi ci mise la Sellerio, che a quei tempi era nel Consiglio d’amministrazione. Un giorno mi telefonò perché voleva incontrarmi, e siccome non conosceva Roma prese la macchina per raggiungermi da casa sua, che era a cento metri da me. Era una donna eccezionale.
Quella era la Rai dei professori. Poi tornò la politica, e Letizia Moratti mi fece fuori. Mi recuperò dopo, prima a Stream, e poi quando divenne ministro dell’Istruzione. Con Moratti divenni direttore di Rai Educational. E fu allora che inventai ‘La storia siamo noi’ con Piero Corsini. Abbiamo vinto l’Oscar televisivo americano per il miglior progetto di divulgazione di storia”. E qui Minoli è come afferrato da un ricordo amaro, torna a incresparsi. “Io ho vissuto la disoccupazione, sai? So cosa significa non avere un lavoro. Sul serio. Girai l’Africa tra i comboniani. Kenya, Tanzania…”.
Sembra provare una ritorta soddisfazione nel descriversi più sconfitto di quanto non sia. “Il mio vero mestiere è fare il manager televisivo”, mi dice. Ma sei in pensione, obietto. “A ottantacinque anni Piero Angela va ancora in onda. Luciano Onder ne ha una decina più di me, ed è sempre lì. Bruno Vespa ha pure lui qualche anno più di me”. Sospiro. Pausa lunga. “Perché a Paolo Mieli non rinfacciano le sue relazioni sociali, le sue parentele, le sue amicizie, e a me sì?”. Sorride. “Mieli avrebbe potuto fare, allo stesso modo, invariabilmente, il direttore del Corriere della Sera per conto di Potere operaio, dei socialisti o della Fiat”.

Poi, come un soffio: “Ma, come scrive sempre il Foglio, su Nove colonne, adesso Mieli fa anche il Minoli a Rai Storia. Invece io sono stato disoccupato per tre anni… E in quel periodo ho scoperto che Giovanni mi stava più simpatico di Minoli. Quando arrivi al successo televisivo a un certo punto hai un problema d’identità. Mi fece riflettere una volta Enrico Vanzina, lo incontrai non mi ricordo più dove, credo in una località termale. Era il momento di massimo successo di Mixer. Mi fece capire che il successo dà alla testa.
Così dopo l’incontro con Vanzina decisi di non fare Mixer, di saltare una stagione per vedere come stavo. E meno male che saltai quel giro. Perché l’anno dopo mi buttarono fuori dalla Rai. Fu una fortuna. Non precipitai dal settimo piano, ma da una distanza più ragionevole. Poi andai in Africa”. E qui Minoli mi fa di “no” con il dito. Come dire: questo non lo devi scrivere. E racconta: “In Africa ho capito che il personaggio Minoli nutriva delle antipatie che non erano forse nemmeno giustificate. Nella mia vita ho fatto anche del male a delle persone. Per aver scambiato troppe volte la mia passione con l’ira. E credo di avere sbagliato”.
La Rai la ama, dice. “Ma adesso soffro. La Rai si è trasformata da Pier Luigi Celli in poi, con lui i processi sono diventati più importanti dei prodotti. Io Celli lo definisco il più grande manager per caso della storia televisiva italiana”.

E chi è stato bravo secondo te, in epoca moderna, recente? “Agostino Saccà apparteneva alla tradizione della televisione che sapeva immaginare il prodotto. Ma è stato fatto fuori, triturato, massacrato ed espulso come un calcolo renale sulla base d’accuse che si sono rivelate infondate. Non aveva fatto niente Saccà. E io l’ho difeso pubblicamente, anche se politicamente eravamo distanti. Le telefonate di raccomandazione le fanno tutti. Non bisogna essere ipocriti. Le fanno tutti alla Rai, e fuori”.
E Minoli ha una sua teoria sulla crisi della televisione di stato. “La crisi della Rai è una crisi di identità professionale. Di vocazione”, dice. “Si è persa la scuola che hanno fatto Bernabei, Zavoli, Fabiani, Agnes, Biagi, Emanuele Milano e Fichera… E’ curioso che la televisione italiana, che la Rai, sia importatrice di format televisivi esteri piazzati nelle fasce più pregiate dell’ascolto. Ti faccio un esempio sull’incapacità e l’inerzia della nostra televisione di stato: il British Museum ha prodotto un documentario su Pompei, ci ha guadagnato circa dodici milioni di euro. Ecco. Noi Pompei ce l’abbiamo qui, a casa, ma questo documentario l’hanno prodotto, finanziato, realizzato e venduto gli inglesi. Paradossale, no? La logica è quella di affidare la televisione a dei manager che non hanno passione e visione editoriale, non conoscono il prodotto, trattano la televisione come si potrebbe gestire, che ne so, una fabbrica di scatolette di tonno. Compriamo format che spesso abbiamo già in casa. Ma non lo sa nessuno perché si è interrotta la catena di trasmissione dei saperi: nessuno insegna più nulla. Prendi La prova del cuoco.
Il concetto base è che metti a gareggiare tra loro degli chef. Allora ho fatto fare una ricerca per vedere quanti programmi aveva inventato la Rai, in passato, basati sull’idea di far gareggiare tra loro dei cuochi davanti ai fornelli. Erano cinque. Cinque! Questi format li potevi vendere tu all’estero invece di comprarli. E sai perché non ci ha pensato nessuno?”. Dimmelo tu. “Perché non ci sono più uomini di prodotto. Ma solo ‘corporate’. Apparato. Manager. Cosa fanno questi ottomila uomini d’apparato alla Rai? Boh. Se tu chiudi un progetto che ha vinto l’Oscar della televisione in America come La storia siamo noi, e decidi che questo patrimonio debba andare disperso, vuol dire che non c’è passione per il prodotto”.
Ti ha mandato via Luigi Gubitosi, il direttore generale nominato dal governo tecnico di Mario Monti. “Gubitosi non mi ha trattato bene e penso si sia sbagliato. E penso che si possa anche essere pentito. Dirigenti come lui forse pensano che la televisione sia un’industria qualsiasi. Non è così. Oggi il bilancio della Rai è meno disastroso di qualche anno fa. Bene. Ma il prodotto? Non c’è progetto. E il 2016, l’anno di rinnovo della concessione per il canone è lì”.

C’è qualcosa che in tv ti piace? “E’ il progetto che non c’è. In Rai senti parlare solo di conti. Un po’ come in Rcs.

Secondo te Pietro Scott Jovane, l’amministratore delegato di Rcs, ha in testa il prodotto Corriere della Sera? Non mi pare. I giornali, come le televisioni, non sono fabbriche di pomodori pelati”.

La Rai è vecchia. Anche tecnologicamente, dico a Minoli. “Da tutti i punti di vista. Solo la fiction è su livelli industriali moderni, quasi sempre. Ma anche con la tecnologia povera si possono fare grandi cose. Il problema sono i contenuti”.
E Minoli cita YouReporter, il sito su cui gli utenti possono caricare video di giornalismo cosiddetto partecipativo. “Il problema non è l’hardware, il problema è il software, cioè i contenuti. Se non ci mettiamo i contenuti le piattaforme tecnologiche sono solo ferro. A che serve YouReporter se non ci sono i video?”. Adesso YouReporter è stata comprata da Rcs. Quelli dei pomodori pelati. “E speriamo che non la sfascino. Il primato lo deve avere il prodotto editoriale. Per questo penso che oggi, per esempio, Ferruccio de Bortoli potrebbe essere il miglior amministratore delegato per Rcs. Sa tutto di quell’azienda. Sa di cosa parla, sa cos’è un giornale.
E’ stato Scalfari a fare grande il gruppo Espresso, lui con Caracciolo. Giornalisti, editori veri. Anche Bernabè alla Rai era così. Il prodotto prima di tutto. Per questo dico: ben venga Urbano Cairo in Rcs”. E qui Minoli ritorna a parlare di come è nata Mix 24, la sua trasmissione radio. “Vado da Napoletano, che mi ha chiamato, e gli dico: senti, i talk show sono la radio in tv. Allora noi dobbiamo fare la televisione in radio”.

Che significa che i talk sono la radio in televisione? “I conduttori di talk show odiano i filmati, le immagini. Perché i filmati impediscono la loro…”. E qui Minoli strizza gli occhi, quasi si fumettizza: “Impediscono – dice – la loro pshhhh”. E fa un gesto, come d’una bibita gassata che esplode, “pshhhh”, appunto. “I talk show hanno trasformato le parole in proiettili, titillano la vanità di politici che diventano interscambiabili. Ed esaltano il conduttore, che è l’unica cosa che alla fine ti ricordi dell’intera trasmissione”. Qualcuno ti piacerà. “C’è chi è più bravo. Riccardo Iacona, con le sue inchieste. E secondo me Michele Santoro è il più bravo, perché ha capito che il racconto deve essere più approfondito e meno urlato. E gli piacciono le immagini. Ma è la costruzione narrativa del talk che non mi piace. Ha una sceneggiatura rigorosa: vellica la vanità dei politici e distrugge la politica. I faccia a faccia invece arricchiscono e approfondiscono. In America i talk show non sono come i nostri. Sono talk show, cioè spettacolo e parole. La cosa più simile a un vero talk show che ci sia in Italia è Che tempo che fa di Fabio Fazio”. I talk show sono in crisi. “E sono in crisi perché gli spettatori sono sempre quelli. E dopo che ne hai visto uno, difficilmente te ne guardi anche un altro. Sono tutti uguali. Dan Rather, il grande anchorman della Cbs, diceva una cosa secondo me giustissima, diceva che la tivù è una bomba atomica a effetto ritardato nel tempo. Se non la controlli, costruisce una generazione di zombie ingovernabili. Ed è vero. La televisione è uno strumento che costruisce un sistema di valori e di modelli di comportamento. Piaccia o no. Renzi, per esempio, è evidentemente questo. E’ uno cresciuto guardando e capendo la televisione, anche quella commerciale di Berlusconi”.
Ti piace Renzi? “Renzi vincerà se sarà un barbaro pacificatore. Barbaro, perché prima deve rompere le uova. Pacificatore, perché poi con tutte quelle uova ci deve fare la frittata. Altrimenti non sarà nulla”.

Prima citavi Ettore Bernabei, il padre di tua moglie Matilde. Che rapporto hai con tuo suocero? “Buono. Adesso ha novantatré anni. E ancora legge tutte le sceneggiature che arrivano alla sua casa di produzione. Ho avuto la fortuna di conoscere nella mia vita l’uomo che ha inventato la televisione in Italia. Poi certo, per questo ho anche pagato un prezzo. Le malizie, il gossip. Ma ne è valsa la pena. Per me è stato un maestro”.
E allora chiedo a Minoli della sua famiglia, di suo padre Eugenio, il grande avvocato torinese. “Da ragazzo, all’età di quindici o forse sedici anni, scrissi un romanzo di duecento pagine in cui descrivevo la morte di mio padre come sarebbe poi in effetti avvenuta dieci anni dopo. Incredibile. Un incidente automobilistico, mentre veniva da noi al mare, a Punta Ala”. E Minoli spinge ancora la memoria ai limiti della fanciullezza, dove i volti amati sono precisi come nelle fotografie. “Morì nella notte, noi lo sapemmo la mattina. Arrivò una telefonata dei carabinieri mentre mia madre, i miei fratelli, mia sorella e io eravamo tutti a tavola, per la colazione”…

[Minoli ha otto fratelli e una ventina di nipoti. “Una grande famiglia è la più grande scuola di vita che si possa avere. Ho scoperto sin da subito che la vita è una lotta”, dice. E qui racconta cosa succedeva ogni anno, al momento del cambio di stagione, quando la madre accumulava in una stanza una montagna di vestiti vecchi, quelli dei fratelli più grandi. E ciascuno correva a prendere ciò che gli piaceva di più: un paio di scarpe, un pullover, dei pantaloni…
“Poi dovevamo cucire un numero su ogni cappotto o camicia o golfino. Perché poi le cose finissero nel cassetto giusto. Io ero il terzo dei fratelli. Dunque cucivo sui miei vestiti il numero 3. E mia madre, in quella grande e sonora casa di Torino, alla Crocetta, per chiamarci squillava un campanello. Anche lì, tre squilli ed ero io. Giovanni. L’idea dell’allevamento mi è molto chiara”, dice. E dunque racconta di aver allevato “tre generazioni di televisionisti”. Con lui ha cominciato anche Gabriele Muccino, il regista, che montava le storielle finali di Mixer, che lavorava sui blocchi di Un posto al sole. E poi Milena Gabanelli, Massimo Giletti, Sveva Sagramola, Marcella De Palma, Bianca Berlinguer] …
“Ho passato tutta la vita a chiedermi come fosse stato possibile aver descritto la morte di mio padre prima che accadesse. Aveva sessant’anni quando è morto, io venticinque”. Sei scaramantico. “No. Ma credo in Dio, sono stato allevato dai gesuiti. Mi piace anche Papa Francesco”. Sei praticante? “Sì. Mio padre era un convertito, e il mio bisnonno un massone mazziniano. Finanziava Cavour. Era ricchissimo, era figlio di un panettiere ma divenne una specie di Armani dell’epoca. Conobbe Mazzini a Londra, fu anche arrestato in Francia. Inviò denari per la spedizione dei Mille, per la guerra in Crimea… Conservo a casa i suoi carteggi con Mazzini. Sono piuttosto divertenti. In sostanza Mazzini chiedeva sempre soldi. Mio nonno invece era avvocato come mio padre e mio fratello. Fondò la Figc. Era un uomo brillante credo, mondano, oggi si direbbe social. Ma ti dicevo di mio padre. Ebbe una conversione direi quasi mistica fra i trentatré e i trentaquattro anni. Quando morì trovammo dei nastri sui quali aveva registrato la storia della sua vita. Morì nel 1972. Laureato da appena tre anni”. In cosa? “In Legge. Voleva facessi l’avvocato anche io. Ma a me di diventare l’erede del professor Minoli non interessava. E poi già non mi avevano fatto giocare a calcio…”.
Volevi fare il calciatore? “Il mio vero talento era giocare a pallone. Ebbi anche un’offerta da Rizzoli per andare al Milan. Avevo quindici anni. Avevo vinto la medaglia d’oro al trofeo Carlin. Era, tra i tornei giovanili, uno dei più importanti. Con me c’erano Agroppi, Fossati, Cereser… Ma in una famiglia borghese come la mia, fare il calciatore suonava come oggi deve suonare alle orecchie di una madre sentirsi dire che la figlia vuole fare la velina”.
Saresti diventato molto ricco. “A mia madre dicevo sempre questo, ogni volta che non eravamo d’accordo e discutevamo di qualcosa: aspetta, prima di parlare devi mettere sul tavolo dieci miliardi di lire. Quelli che mi hai fatto perdere con il calcio”. Prima di salutarci, Minoli torna sulla Rai, provocatorio. “Adesso nel 2016 scadono le concessioni, il contratto tra lo stato e la Rai”, dice. “Ci saranno delle forze editoriali in campo che premeranno per avere quote del canone. Lo dico provocatoriamente, ma neanche troppo: perché il canone lo diamo alla Rai e non lo può avere il tg di Mentana a La7? Qual è oggi la differenza tra la Gruber e l’Annunziata, tra Crozza e Conti? Sarà un problema. Ne vedremo delle belle. La Rai deve prepararsi, la Bbc lo sta facendo da quasi due anni”.