Dopo l’annuncio di Benjamin Netanyahu sull’imminente avvio dell’operazione “Carri di Gedeone”, con cui mira a occupare la Striscia di Gaza, le trattative di pace – e con esse le speranze di tutto il mondo – sembrano destinate al fallimento. Un timore che trova conferma nelle dichiarazioni del ministro dell’Energia israeliano, Eli Cohen, secondo cui “la parola tregua deve essere cancellata dal lessico: solo così la Striscia di Gaza sarà smilitarizzata”, e in quelle di Basem Nai, uno dei vertici politici di Hamas, secondo cui “non ha senso impegnarsi nel dialogo o considerare una nuova proposta di cessate il fuoco fintanto che la guerra della fame e dello sterminio continuerà nella Striscia di Gaza”.
Parole che sembrano chiudere definitivamente la porta a un accordo tra Hamas e Israele. Eppure, le cose non starebbero affatto così: qualcosa, sotto traccia, si starebbe muovendo. I mediatori del Qatar, insieme ai colleghi dell’Egitto, assicurano infatti che si continua a lavorare a un cessate il fuoco e che, per quanto difficile da raggiungere, un accordo non è del tutto impossibile. Questo anche perché l’operazione militare “in grande stile” annunciata da Netanyahu non inizierà prima del 13 maggio, data in cui Donald Trump terrà un incontro decisivo in Arabia Saudita, proprio per testare se esistono le condizioni per mettere fine alla guerra in Medio Oriente.
A conti fatti, dunque, il primo ministro ha lanciato un ultimatum ad Hamas: un segnale che lascia intendere come margini di trattativa – seppur limitati – esistano ancora. A confermarlo, anche le dichiarazioni dell’esercito israeliano (IDF), secondo cui l’offensiva “Carri di Gedeone” potrebbe fermarsi ancora prima di iniziare, a patto che il movimento palestinese accetti di restituire tutti gli ostaggi.
Montano le proteste contro Netanyahu
È in corso una partita di scacchi dall’esito incerto. Lo sa bene l’inviato speciale degli Stati Uniti in Medio Oriente, Steve Witkoff, che ha esortato gli israeliani a “scegliere l’unità anziché la divisione”, ricordando che “Israele è una nazione straordinaria fin dalla sua fondazione. Ha affrontato le minacce esterne con creatività, resilienza e trionfo. Gli Stati Uniti saranno sempre il suo alleato più forte. Eppure, la forza di Israele risiede nella sua unità”.
Proprio evitando divisioni, secondo questa tesi, l’amministrazione Netanyahu potrebbe esercitare maggiore pressione su Hamas, spingendo i miliziani ad accettare l’accordo di pace. Un appello all’unità che, però, non ha fermato le proteste: centinaia di israeliani si sono radunati fuori dal Parlamento a Gerusalemme per manifestare contro il governo, dopo l’approvazione da parte del gabinetto di sicurezza del piano per estendere le operazioni militari nella Striscia di Gaza e sfollare la popolazione civile. Secondo i manifestanti, queste mosse mettono a rischio la vita dei 54 ostaggi ancora nelle mani di Hamas.
Israele minaccia l’Iran
A preoccupare, in tutto questo, sono anche le crescenti tensioni tra Tel Aviv e Teheran. L’amministrazione Netanyahu continua infatti a paventare “possibili rappresaglie” militari per “punire” il regime degli ayatollah, ritenuto responsabile delle tensioni regionali e delle operazioni lanciate dagli Houthi contro Israele. Accuse che l’Iran definisce “fantasiose”, assicurando di non avere alcuna influenza sulle decisioni del gruppo yemenita e minacciando di rispondere “colpo su colpo” nel caso in cui Israele dovesse lanciare un attacco diretto.