Non è l’Arena, è propaganda! Ma il giornalismo italiano non muore di solo Giletti

Giletti l’ha fatta grossa. Trasmettere da Mosca era già una pessima idea, ma sfociare nel grottesco è un circo degli orrori su cui riflettere

Non è l’Arena, è propaganda! Ma il giornalismo italiano non muore di solo Giletti

È vero, Massimo Giletti l’ha fatta grossa. Spostare una trasmissione italiana a Mosca per montare un teatrino che alimentasse l’ego del conduttore era già una pessima idea che non aveva nulla a che vedere con il giornalismo ma sfociare così prepotentemente nel grottesco è un circo degli orrori che ci insegna molte cose.

GILETTI A MOSCA

Prima c’è stato il siparietto tra il giornalista (ora inventatosi inviato di guerra) e la portavoce di Lavrov, Zakharova, che è riuscita a metterlo all’angolo come accade a tutti gli esperti di geopolitica spuntati nelle ultime settimane (prima erano virologi, prima ancora erano allenatori di calcio) che scambiano il tifo per spessore professionale: “Mi sembra uno arrivato sul pianeta Terra da una settimana”, dice la portavoce del ministro degli Esteri russo a un Giletti emaciato che prova a sempre un giornalista. Passa qualche minuto e Zakharova gli tira la stoccata: “Mi pare che lei parli come un bambino”.

Il giornalismo italiano che prova a smontare la propaganda russa utilizzando le due frasette che ha imparato a memoria dai cantori dell’Occidente su Twitter non funziona nella realtà. È normale. Del resto gli esperti di geopolitica, quelli veri come Dario Fabbri e Lucio Caracciolo e i giornalisti di guerra, quelli veri come Nico Piro, in questo periodo sono additati come filoputiniani di più dello stesso Giletti che ha messo a disposizione il suo spazio televisivo per un comizio.

Siamo alla prima evidente caratteristica del giornalismo nostrano: la pavidità. La pavidità di Giletti che balbetta di fronte alla propaganda, anzi quasi la ringrazia per avergli dato quest’occasione di prossimità e di seguito la vigliaccheria di chi alla fine Giletti lo censura molto più degli altri giornalisti con meno visibilità perché in fondo riesce perfino a temere Giletti perfino mentre teme i russi.

Poi c’è l’abbassamento del dibattito, che con la guerra è finito in un dirupo. Il risultato più evidente sono i nani che si trasformano in giganti, un profluvio di riabilitazioni repentine solo perché utili alla disfida.

Così accade che Sallusti il giorno dopo si trasformi nell’eroe dell’onestà intellettuale perché da animale televisivo come tutti i sottoprodotti berlusconiani è riuscito a piazzare un funzionale pay off. “Pensavo fossi andato a Mosca per parlare al popolo russo”, ha detto Sallusti, “immaginavo che tu facessi qualcosa, intervistando Putin o un ministro, un qualcosa per cui noi dovevamo andare fieri della nostra libertà di informazione, e invece mi ritrovo qui, in un asservimento totale alla peggiore propaganda che possa esserci”.

Furioso come piace al populismo Sallusti ha poi aggiunto: “Il Cremlino è un palazzo di merda”, perché “lì il comunismo ha fatto i più grossi crimini” e puntualizzando di voler “rinunciare al compenso pattuito”. Dopo aver ricordato a un Giletti più emaciato che mai di non voler fare la figura della “foglia di fico” davanti a quei “due coglioni che hai lì di fianco”, il direttore ha abbandonando lo studio, imprimendo l’ennesima svolta drammatica a una trasmissione già morta prima di iniziare. Applausi scroscianti.

Peccato che nessuno si ricordi che Sallusti è stato uno dei cantori del “lettone di Putin” quando il suo capo Silvio Berlusconi ha romanticizzato lo Zar.

Peccato che Sallusti, come suo solito, finga di non sapere che la Russia di Putin non ha niente a che vedere con l’Unione Sovietica e con la “sinistra” ma sia stata il concime di quella stessa destra che lui ha servito, più che raccontato. Seconda caratteristica del giornalismo nostrano: essere servitori di due (po più) padroni con la memoria cortissima.

Infine c’è la caratteristica peggiore, quella che mica per niente contribuisce al crollo della credibilità dei giornali. Come su Facebook ci si convince che i “bravi giornalisti” siano quelli che scrivono meglio le nostre idee. Il dibattito non esiste, il conflitto non esiste. Il giornalismo è un circolino in cui riconoscersi simili.

Qui il New York Times non esisterebbe nemmeno.