Non possiamo sceglierci nemmeno la scuola / 3. Per lo Stato far saltare le scuole private è un cattivo affare

di Vittorio Pezzuto

Nel nostro Paese resiste un pregiudizio ideologico, quello per il quale un servizio di pubblica utilità come l’istruzione debba essere svolto esclusivamente dal pubblico. «Si tratta di un concetto ottocentesco» denuncia Alessandro Cacciotti, preside dell’Istituto San Giuseppe De Merode di Roma. «Troppi stentano ancora adesso a comprendere che la strada migliore da percorrere è quella della collaborazione e dell’integrazione tra sistemi diversi. Fanno finta di ignorare il principio costituzionale della sussidiarietà che prevede che lo Stato non debba gestire direttamente ogni aspetto della nostra vita ma limitarsi invece alla definizione di regole di garanzia e standard qualitativi. Ai gruppi culturali e alla famiglie dovrebbe quindi essere lasciata piena libertà di scelta all’interno di un sistema plurale e di concorrenza. Ma così purtroppo non può essere, fino a quando la mancanza di mezzi economici costringe le famiglie all’obbligatorietà della scuola statale».
Con quali conseguenze concrete sull’insieme delle scuole non statali?
«Non attingendo ad alcun fondo pubblico, molte scuole cattoliche sono state costrette alla chiusura e diverse altre rischiano di seguire in breve tempo il loro esempio. Vede, prima esistevano molti religiosi e religiose che insegnavano nelle nostre scuole come missione e non come professione. Adesso la maggior parte dei nostri docenti sono invece laici che lavorano inquadrati nel contratto nazionale di categoria. Il loro costo è elevato e per molte congregazioni religiose addirittura insopportabile. Si crea così un circolo vizioso che non fa bene a nessuno, soprattutto allo Stato.
In che senso?
Per potersi sostenere molte scuole private si vedono costrette ad alzare le rette e quindi a scremare ulteriormente il numero delle famiglie che possono permettersi l’iscrizione dei loro figli. I nostri detrattori ci accusano di essere elitari ma non capiscono che siamo costretti ad esserlo. Con la conseguenza che gli studenti esclusi passano così a gravare sulle scuole statali e quindi su un sistema pubblico che al contribuente costa dieci volte tanto. Non mi sembra che per lo Stato si tratti di un buon affare. Quando certi movimenti di sinistra contestano i tanti soldi dati alla scuola privata dimenticano di dire che questa riceve circa 500 milioni di euro a fronte di una spesa per l’istruzione pubblica che ammonta a 58 miliardi! Non capiscono che se i nostri 700-800mila studenti si riversassero nelle scuole statali costerebbero molto ma molto di più al contribuente».
Alcuni sostengono che garantiate una facile promozione degli alunni.
«È vero che non tutte le scuole paritarie sono serie ma noi non meritiamo questa accusa. I diplomifici sono altri, ad esempio gli istituti e i centri studi specializzati nei recuperi dei ragazzi bocciati. Mentre noi escludiamo per principio la riammissione di studenti che abbiano fatto questo salto del recupero di anni perduti».
Può affermare che la qualità dell’insegnamento delle scuole non statali sia comunque superiore?
Non credo si debba generalizzare. Ritengo che vi siano scuole statali che assicurano un’altissima qualità nell’insegnamento e al tempo stesso scuole cattoliche non altrettanto performanti. Resta però un dato di fondo: se non vogliono chiudere, le scuole non statali sono costrette per definizione a funzionare bene e a rispondere a certi standard qualitativi. Un obbligo che le scuole statali non hanno. E poi da noi i genitori cercano non solo una crescita culturale dei propri figli ma un progetto di riferimento più complessivo riferito alla persona nella sua totalità. Nei nostri istituti si coltiva un’attenzione continua agli aspetti morali, etici e psicologici che coinvolge non solo genitori, studenti e insegnanti ma anche il personale amministrativo così come gli addetti alle cucine o alle portinerie. E mi piace sottolineare come la scuola cattolica abbia elaborato una teoria dell’educazione centrata sulla persona che è divenuta da tempo un patrimonio di tutti: il nostro progetto di “comunità educante” è stato ormai adottato in tutti i documenti del Ministero dell’Istruzione».
Eppure siete concretamente privati del sostegno che le scuole religiose ricevono in altri Paesi europei.
«Purtroppo è così. La laicissima Francia ad esempio sostiene pressoché completamente anche la scuola non statale, pagando direttamente gli insegnanti. E in Spagna lo Stato interviene in maniera molto consistente anche nelle scuole dirette da religiosi. Insomma, altrove la libertà di scelta viene concretamente garantita e fa diventare meno elitaria l’utenza di questo tipo di scuole. Col risultato che, a differenza di quanto avviene in Italia, gli ascensori sociali funzionano: anche il figlio dell’operaio può pensare di diventare notaio. Da noi non avviene quasi mai».

 

Ecco perché strozzare gli istituti non statali porterà al collasso

di Fausto Cirillo

I dati pubblicati nel Rapporto dell’unità di analisi e studi della Direzione generale Education della Commissione Europea, fanno paura: relativamente alla capacità di lettura e comprensione di un testo, il 50,9% dei ragazzi italiani, fra i 15 e i 18 anni, si colloca al di sotto della soglia minima, ritenuta tale per un Paese sviluppato. E se si guarda la serie storica si coglie l’aspetto ancora più triste: il dato peggiora nel tempo, e questo significa che la percentuale di analfabeti secolarizzati è destinata a crescere. Non stupisce, quindi, che secondo il rapporto Censis 2009 l’80% di quei ragazzi si chiedeva che senso abbia andare a scuola e il 91,6% è convinto che, una volta finiti gli studi, potranno accedere a un posto di lavoro non per quel che hanno imparato e sanno, ma grazie alle conoscenze della propria famiglia. Puntano alla raccomandazione, insomma.
Eppure la sconfitta formativa nel nostro Paese non ha affatto diminuito la percezione che il sapere sia strumento di benessere economico e promozione sociale. In altre parole, non è vero che le famiglie italiane non credano nel valore del sapere. È invece vero che subiscono l’implosione del sistema, senza avere apparenti vie di fuga. Tant’è che chi può manda i figli all’estero, anche giovanissimi, per imparare le lingue (in particolar modo l’inglese) così come si mandano quelli laureati a frequentare master poi preziosi per propiziarne la carriera. Solo che questo avviene su base volontaristica, senza alcun supporto pubblico, senza interazione con il mondo produttivo, quindi senza borse di studio e senza alcuna selezione all’ingresso. In altri termini conta il censo e contano i quattrini della famiglia mentre conta poco la qualità del ragazzo. Difficile immaginare un sistema più ingiusto (e, un tempo, si sarebbe detto “classista”). La meritocrazia è socialmente giusta, perché premia i bravi e non i potenti. L’accesso indiscriminato è socialmente ingiusto, perché frega i capaci a favore di quanti non dovranno all’istruzione il proprio reddito.
Ecco perché appare intollerabile l’assenza di una politica di deducibilità fiscale per le famiglie che, non disponendo di grandi mezzi finanziari, vorrebbero inviare i propri figli nelle scuole non statali. Costringendole a ingolfare un sistema che purtroppo fa acqua da tutte le parti e che sembra ritagliato soprattutto sulle esigenze degli insegnanti.
Che la scuola privata faccia bene ai pubblici bilanci è invece un dato evidenziato da diverse ricerche e studi. Per convincersene è sufficiente andarsi a leggere una pubblicazione del Ministero dell’Istruzione, intitolata “La scuola in cifre”. In quella che si riferisce all’anno scolastico 2009-2010 risulta che a fronte di 7.852.359 alunni della scuola statale di ogni ordine e grado, è stato praticato un finanziamento pubblico complessivo pari a 54,6 miliardi di euro, così ripartito: 45 miliardi sul bilancio del Ministero dell’istruzione; 7,7 miliardi di euro sui bilanci degli Enti locali; 1,7 miliardi di euro sui bilanci delle Regioni. Il dato, di per sé significativo, risulta tuttavia incompleto perché si riferisce alle sole spese “correnti” e non a quelle in conto capitale, come ad esempio la costruzione e manutenzione ordinaria e straordinaria degli edifici, l’ammortamento dei capitale; inoltre esclude quelle voci a carico di bilanci di altri Ministeri, coinvolti anch’essi per le proprie competenze, a sostenere direttamente o indirettamente l’istruzione pubblica (Sanità, Trasporti, Beni culturali, Gioventù) come pure esclude i molti miliardi di euro, stanziati per lo stesso scopo dall’Unione Europea per i progetti comunitari. Come ha osservato sul mensile “Docete” Francesco Macrì, il presidente della Fidae (la federazione rappresentativa di circa 3mila scuole cattoliche primarie e secondarie), la risultante di tutte queste voci è enorme sia in senso assoluto sia in riferimento al costo medio dell’alunno della scuola statale. Ed è strabiliante se rapportata alla somma destinata alla scuola paritaria e al costo medio dei suoi alunni. Limitandoci ai dati della pubblicazione ministeriale sopracitata risulta che nel 2009-2010, a fronte di 1.074.205 alunni nella scuola paritaria di ogni ordine e grado, le sono stati erogati come finanziamento pubblico appena 521.924.948 di euro.Facendo un raffronto tra i dati risulta che per l’erario, nell’anno considerato, il costo medio alunno della scuola statale è stato di oltre 7 mila euro (solo per le spese correnti) a fronte di appena 485,870 euro per quello della scuola paritaria. La conclusione che si può trarre è una sola: il finanziamento pubblico della scuola paritaria non solo non è una spesa aggiuntiva per il bilancio dello Stato, ma un grandissimo guadagno; non solo non è una perdita, ma un investimento ad alto tasso di interesse perché si ottiene un servizio equiparabile a quello della scuola statale ad un costo largamente inferiore. Considerazioni pratiche e di buon senso che però troppo facilmente vengono ignorate dai corifei della scuola pubblica a tutti i costi e che non aiutano a sperare che nell’immediato futuro la vita delle scuole paritarie possa essere meno difficile. Nonostante le affermazioni del ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza che, presentando le linee del suo programma, ha dichiarato che «occorre salvaguardare il carattere plurale del nostro sistema di istruzione attraverso misure volte a tutelare la qualità e l’inclusività anche delle scuole pubbliche paritarie».