In Rai è tempo di repliche. E riciccia il lecca lecca a Scalfari. La tv pubblica nelle feste lavora a mezzo servizio. Così ripassa di tutto, anche i vecchi polpettoni

Tempo di feste e in Rai anche di repliche. Così è tornato in onda su Rai 3 il polpettone sulla vita di Eugenio Scalfari.

In Rai è tempo di repliche. E riciccia il lecca lecca a Scalfari. La tv pubblica nelle feste lavora a mezzo servizio. Così ripassa di tutto, anche i vecchi polpettoni

Tempo di feste e in Rai – al solito – anche di repliche. Così è tornato in onda su Rai 3, in preda ai fumi buonisti del Natale, il polpettone sulla vita di Eugenio Scalfari (nella foto), “A sentimental journey”, già trasmesso ad ottobre. Il programma è stato confezionato dalle figlie Enrica (fotografa) e Donata (giornalista Mediaset, nella migliore tradizione bipartisan vista la storia che lega il fondatore della Repubblica, l’editore del tempo Carlo De Benedetti e l’arcinemico Berlusconi).

Un documentario talmente celebrativo da essere finito pure al Festival del cinema di Roma. Il girato vorrebbe essere un omaggio al vecchissimo (97 anni) fondatore di Rep, ma si rivela appunto un polpettone agiografico soporifero e irritante, una marchetta che il servizio pubblico ha voluto elargire ad un personaggio che da sempre piace alla Sinistra che piace.

Così i telespettatori superstiti della rete che fu pensata informale e progressita da Angelo Guglielmi si sono beccati il bis delle smancerie banalmente borghesi di casa Scalfari, fatte di ricordi e ricordini dei giorni passati nella casa sulla Nomentana (quartiere molto bene di Roma molto Nord), con le figlie di… prostrate dal “nome pesante” da portare, di cui naturalmente si lamentano. In una casa gingillo insopportabile, con quelle che Guido Gozzano chiamava “buone cose di pessimo gusto”, le costose porcellane, i libri polverosi, i divani fuori tempo con la stoffa sfarfallata, e su tutto quella orribile aria radical chic che ha rovinato la Sinistra negli anni. Forse per sempre.

Finché non arriva Lui, il gran vecchio del giornalismo italiano, che occupa abusivamente un pantheon immeritato. Scalfari è stato l’emblema di un giornalismo che si fa potere e che tratta muscolarmente (qualcuno oserebbe dire “ricatta”) la politica. Un giornalismo che vuole governare. Un sistema di potere (vedi il caso Cefis in “Razza padrona”), costruito su Repubblica e l’Espresso, che ha condizionato – come ammesso persino da Walter Veltroni – la vita democratica del nostro Paese.

Basti pensare alla campagna diffamatoria che Camilla Cederna iniziò nel 1975 dalle pagine proprio dell’Espresso contro il presidente della Repubblica Giovanni Leone, che fu costretto poi alle dimissioni. La Cederna fu querelata dai figli di Leone e perse in tutti e tre i gradi di giudizio insieme a L’Espresso, ma il danno era ormai fatto.

Ma torniamo a Scalfari. Pochi sanno che il paladino della Sinistra fu fascistissimo dei GUF e addirittura caporedattore di Roma fascista e redattore di Nuovo Occidente. La “conversione” all’antifascismo avvenne per motivi poco nobili, cioè una ripicca personale: fu cacciato dai GUF dal vicesegretario del PNF Carlo Scorza per alcuni articoli. Dopo la liberazione Scalfari agganciò il tram liberale e si trasformò magicamente in un “cosmopolita illuminista” scrivendo su Il Mondo di Mario Pannunzio e L’Europeo di Arrigo Benedetti.

Nel docufilm delle figliole emergono però particolari inquietanti: Scalfari da direttore di Repubblica e l’Espresso puniva i giornalisti rei di errore togliendogli il salario e costringendoli ad andare al giornale a guardare i colleghi lavorare. Mancavano i ceci e le bacchettate sulle nocche, ma ci si andava vicino. Poi non poteva mancare il solito refrain del “compagno di banco di Italo Calvino” e soprattutto quella dell’amico del Papa (lui si è sempre definito ateo, non il Papa). Le due sorelle però si guardano bene dal riferire che la sala stampa vaticana dovette smentire “l’amico del Papa” che aveva attribuito al pontefice – in un dialogo privato – addirittura l’abolizione dell’inferno con conseguente annientamento delle “anime prave”.

Altra perla – ovviamente non raccontata – di Scalfari fu la bufala che ammollò a Giampiero Mughini su quante copie vendeva agli inizi Repubblica: 140.000 invece delle vere 70.000. Nel documentario emergono inoltre tratti maschilisti ammessi e descritti con compiacimento narcisistico dallo stesso Scalfari che si rammarica di non aver avuto figli maschi (!). Non proprio esempi edificanti per un autoproclamatosi “illuminista” e faro della Sinistra italiana.