La vera rivoluzione c’è stata nel 2016: è quello l’anno in cui viene introdotta la riforma che punisce il caporalato. E da allora – e le ultime inchieste ne sono una prova – qualcosa è cambiato. Perlomeno per quanto riguarda la repressione dei fatti criminosi come accaduto ieri (leggi l’articolo). Quel che manca, però, è la prevenzione. E prevenzione non ci potrà essere finché non si agirà sul welfare e, in particolar modo, sulla necessità di introdurre un salario minimo che, di fatto, mettere fuorigioco tutto ciò che è caporalato o simil-sfruttamento, dal lavoro nei campi fino ai rider per le nostre città.
Ma facciamo un passo indietro per meglio comprendere tale necessità. Sono state necessarie rivolte di braccianti stranieri contro atti di violenza, campagne di mobilitazione dei lavoratori sfruttati e dei sindacati e l’impegno di diversi politici affinché in Italia il caporalato venisse riconosciuto come reato chiamato “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”.
Da quel momento in poi è stato possibile perseguire i responsabili dello sfruttamento dei braccianti agricoli o dei muratori, i cosiddetti “caporali”, ma anche le aziende o i singoli datori di lavoro. Il primo punto di rottura sono state le rivolte dei braccianti del 2010 e del 2011, seguite dall’approvazione della legge del 2011 e dalla riforma del reato previsto dall’articolo 603 bis del codice penale, poi riformato nel 2016.
L’ITER LEGISLATIVO. È il 26 luglio 2011, infatti, quando al Senato il Partito democratico – a firma della senatrice Colomba Mongello – presenta il disegno di legge 2584 dal titolo “Misure volte alla penalizzazione del fenomeno di intermediazione illecita di manodopera basata sullo sfruttamento dell’attività lavorativa”: il ddl prevedeva l’introduzione l’articolo 603 bis del codice penale per punire con la detenzione da 5 a 8 anni di carcere e una multa da mille a duemila euro per ciascun lavoratore impiegato, “chiunque svolga un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità del lavoratore”.
Prima di allora – sembra incredibile ma è così – il caporalato non era punito con pene severe. Ciononostante il caporalato negli anni è restato un fenomeno criminale che, secondo gli ultimi dati, coinvolge circa 400mila lavoratori sfruttati. Per rendere la legge più dura sul piano penalistico, nel corso della sedicesima legislatura il governo Renzi ha lavorato su alcune norme sostenute dagli allora ministri delle Politiche agricole, Maurizio Martina, e della Giustizia, Andrea Orlando, per riformare l’articolo 603 bis e aumentare l’efficacia del contrasto al caporalato. Ed è qui che le cose cambiano.
Ad esempio cadono il riferimento all’organizzazione del lavoro, quindi basta che la manodopera sia reclutata, e quello alla presenza di violenza, minaccia e intimidazione: non è più necessario che ci siano questi elementi, però “se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia” si applica un’aggravante. Tra le novità introdotte ci sono la possibilità di sanzionare il datore di lavoro che approfitta dello “stato di bisogno” dei braccianti. Si punisce così anche uno di quegli anelli della catena che trae un guadagno da questo sfruttamento.
Diventa obbligatorio l’arresto in flagranza, prima soltanto facoltativo. Si rafforzano l’utilizzo della confisca, sia per gli strumenti e i mezzi che servono a commettere il delitto, sia dei prodotti e dei profitti. Si adottano misure cautelari contro l’azienda in cui è commesso il reato, che può essere sequestrata oppure finire sotto controllo giudiziario nel caso in cui lo stop provocasse ripercussioni negative sull’occupazione o un calo del valore dell’impresa.
LA PAGA MINIMA. Tali misure negli anni sono servite – e molte – per punire in maniera efficace chi ricorre a caporali e sfruttamento. Ma qui subentra la necessità di agire sul welfare. Come più volte denunciato anche dall’ex ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, occorre introdurre un salario minimo (quello ipotizzato dai Cinque stelle pone come soglia minima 9 euro lordi all’ora) affinché il contrasto a tutto ciò che cade nella criminalità venga arginato. Le discussioni nel corso di questa legislatura sono state tante. Senza però che si sia arrivati a una degna conclusione.