Ospedali psichiatrici giudiziari: una follia

di Carmine Gazzanni

L’Italia non è in grado di chiudere “luoghi di tortura”. È questo il quadro che emerge in merito agli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Luoghi di tortura, appunto, come tempo fa li ha definiti la Commissione europea. Dovevano chiudere il 31 marzo 2013 ma è stato deciso di rinviare la data di un altro anno. Ora però la Conferenza delle Regioni ha stilato un documento in cui si chiede un’ulteriore proroga di ben tre anni. Prossima (ipotetica) chiusura: 31 marzo 2017.

Veri e propri lager
Per capire la realtà dei 6 Opg ancora presenti in Italia bisogna partire da lontano. È negli anni Settanta che queste strutture prendono vita, in sostituzione dei vecchi manicomi criminali. Ma, come tengono a precisare dall’associazione Antigone, è solamente «una questione di pudicizia»: internati imbottigliati di pillole e sedativi, strutture fatiscenti, stanze occupate anche da sette o otto pazienti, letti con le reti bucate nel mezzo per permettere l’espulsione di urina e feci. Insomma, veri e propri lager. Né uscire da tali strutture è così scontato. «I gravi ritardi – ci dice Stefano Cecconi dell’associazione “StopOpg” – sono relativi al fatto che si doveva e si poteva e si deve lavorare per lo smantellamento di questi istituti attraverso le dimissioni delle persone che sono riportabili sul territorio, cioè quelle in regime di proroga che sono almeno un terzo del totale». In molti casi quest’ultime non vengono dimesse «semplicemente perché i servizi sociali non hanno presentato progetti di presa in carico e quindi rimangono parcheggiati in Opg, ben oltre la durata della misura di sicurezza comminata dalla sentenza». Non è quindi un caso che si parli di “ergastolo bianco” dato che le proroghe raggiungono talvolta anche i 20 anni. Un periodo infinito per coloro che devono sopravvivere in queste strutture.

Finanziamenti congelati
In totale sono 273 i milioni stanziati dal governo per la riconversione dei 6 Opg in strutture regionali: ben 180 milioni per la riconversione delle strutture, più altri 93 per il personale. Soldi che però, allo stato attuale, rimangono congelati. Nessuno (per ora) ha utilizzato un solo centesimo per ritardi colossali nella presentazione dei progetti da parte delle Regioni. La legge approvata nel 2012 prevedeva infatti che queste avanzassero progetti per la riconversione al ministero della Salute che, di concerto col ministero dell’Economia (che si sarebbe occupato del conteggio delle spese), avrebbe dato l’ok per l’avvio dei lavori. I soldi dunque c’erano ma nessuno, per negligenza o per cattiva gestione, li ha utilizzati.

La situazione attuale
È difficile dire di chi siano le responsabilità. A sentire le Regioni sarebbe tutta colpa dei tempi troppo stringenti imposti dal governo. «Nonostante il fatto che le Regioni abbiano presentato i programmi per la realizzazione delle strutture sanitarie alternative agli Opg – si legge nel loro documento – le stesse non saranno in grado di poter nemmeno avviare nei pochi mesi rimasti, le procedure di gara per la scelta del progettista e dell’impresa esecutrice dei lavori».
Le istituzioni centrali, però, non sono dello stesso avviso. Nella relazione stilata dal ministero della Salute e presentata al Parlamento lo scorso 18 dicembre, infatti, si sottolinea ad esempio come non tutte le Regioni abbiano rispettato i tempi: il Veneto non ha presentato alcunché tanto che «è stata avviata la procedura di commissariamento» con tanto di diffida per il governatore Zaia. Per quanto riguarda Friuli, Liguria, Emilia Romagna, Marche, Lazio, Campania, Calabria e Sardegna si è in attesa di pubblicazione del decreto in Gazzetta Ufficiale. Per tutte le altre Regioni si è invece ancora «in attesa del concerto tecnico finanziario del ministero dell’Economia». Insomma, ritardi di ogni genere. E intanto rimangono internati ancora 890 persone.

L’ALTERNATIVA SI CHIAMA REMS MA NON CONVINCE

Secondo la norma, entro il 2017 i sei Opg oggi esistenti dovranno lasciare il posto alle cosiddette Rems (Residenze per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza), strutture regionali (16 in totale) che però, a detta di molti, altro non sarebbero che mini-Opg. Cambierebbe la forma, dunque, ma la sostanza e il funzionamento delle strutture rimarrebbero gli stessi. Secondo Stefano Cecconi dell’associazione “StopOpg”, infatti, «la chiusura degli Opg non può significare riprodurre nel territorio un’alternativa regionalizzata: facciamo tanti Opg nelle regioni italiane e abbiamo risolto il problema». Si dovrebbe invece insistere, secondo le associazioni, sul potenziamento delle misure alternative alla detenzione previste da ben due sentenze della Corte Costituzionale. Il rischio, insomma, è che alla disapplicazione segua l’ennesimo dispendio di soldi per un progetto morto già in partenza. «Quello che si sta portando avanti – aggiunge Cecconi – è un megaprogetto da 180 milioni per mille e più posti che sono tra l’altro più degli attuali internati. Siamo davvero fuori strada».