Su Regeni nessuna verità dal Cairo. I magistrati egiziani in videoconferenza con i colleghi italiani fanno domande anziché dare risposte. I genitori del ricercatore: “Incontro fallimentare. L’Italia richiami l’ambasciatore”

Doveva essere il giorno della verità e, invece, si è trasformato nell’ennesimo oltraggio alla memoria. E’ avvenuto tutto questo, nella manciata di ore in cui i magistrati italiani, che indagano sul sequestro e l’uccisione di Giulio Regeni, il giovane ricercatore friulano trovato morto al Cairo nel gennaio del 2016, sono tornati a confrontarsi in videoconferenza – per la dodicesima volta -, con i loro omologhi egiziani. Così non è stato, perché il procuratore capo Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco si sono trovati davanti il solito muro di gomma che da 4 anni e mezzo ostacola il corso della giustizia.

I pm di piazzale Clodio, come avevano già fatto a gennaio, hanno di nuovo sollecitato le autorità egiziane sull’urgenza di ottenere un “riscontro concreto”, e in tempi brevi, alla rogatoria avanzata 14 mesi fa. Mentre il procuratore generale egiziano, Hamada El-Sawy, ha fatto sapere la Procura di Roma al termine del colloquio, si è limitato ad assicurare “che, sulla base del principio di reciprocità, le richieste avanzate dalla procura di Roma sono allo studio per la formulazione delle relative risposte alla luce della legislazione egiziana vigente”. Nulla di più. E, soprattutto, dalla videoconferenza non è arrivata alcuna risposta alle domande – almeno due – su cui i nostri inquirenti continuano a battere.

La prima: consentire, eleggendo il loro domicilio, di processare i cinque 007 della National security egiziana (il generale Sabir Tareq, i colonnelli Usham Helmy e Ather Kamal, il maggiore Magdi Sharif e l’agente Mhamoud Najem), che secondo le indagini compiute dagli investigatori di Ros e Sco avrebbero organizzato e portato a termine l’arresto di Regeni culminato con la sua morte in seguito a 7 giorni di torture. La seconda: ottenere conferme rispetto alla presenza di uno dei cinque indagati, il maggiore Sharif, a Nairobi, nell’agosto del 2017, dove nel corso di un pranzo raccontò, in presenza di testimoni, particolari sull’arresto e sul trattamento riservato dai Servizi di sicurezza egiziani al nostro ricercatore.

El-Sawy, anziché rispondere, ha fatto domande. Il procuratore generale del Cairo, riferisce ancora la Procura di Roma, nel corso della videoconferenza ha “formulato alcune richieste investigative finalizzate a meglio delineare l’attività di Giulio Regeni in Egitto”. Poi, una serie di frasi di circostanza per ribadire “la ferma volontà del suo Paese e del suo ufficio di arrivare a individuare i responsabili dei fatti e per questo ha affermato che l’incontro ha costituito un passo decisivo nello sviluppo dei rapporti di collaborazione, con l’auspicio di raccoglierne esiti fruttuosi”. Tutto qui.

Cosa ci sia di decisivo nel colloquio avuto oggi con i nostri magistrati non è chiaro, e, soprattutto, non convince affatto i genitori di Regeni. “Chi sosteneva che la migliore strategia nei confronti degli egiziani per ottenere verità fosse quella della condiscendenza – scrivono in una nota Giulio, Paola e Claudia Regeni e il loro legale Alessandra Ballerini -, chi pensava che fare affari, vendere armi e navi di guerra, stringere mani e guardare negli occhi gli interlocutori egiziani fosse funzionale ad ottenere collaborazione giudiziaria, oggi sa di aver fallito. Richiamare l’ambasciatore oggi è l’unica strada percorribile”.

“A leggere il comunicato della procura di Roma – aggiungono – è evidente che l’incontro virtuale di oggi con la procura egiziana è stato fallimentare. Gli egiziani non hanno fornito una sola risposta alla rogatoria italiana sebbene siano passati ormai 14 mesi dalle richieste dei nostri magistrati. E addirittura si sono permessi di formulare istanze investigative sull’attività di Giulio in Egitto. Istanze che oggi, dopo quattro anni e mezzo dalla sua uccisione, senza che nessuna indagine sugli assassini e sui loro mandanti sia stata seriamente svolta al Cairo, suona offensiva e provocatoria”.

“Non abbiamo motivo di essere fiduciosi, perché fino ad ora da parte egiziana sono arrivati soltanto tentativi di depistaggio e di coprire la verità” commenta, invece, il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Regeni, Erasmo Palazzotto. “Le ultime notizie, della consegna degli oggetti che appartenevano a Giulio Regeni – aggiunge il parlamentare di Leu -, che poi in realtà erano oggetti di uno dei tentativi di depistaggio, ci dice che da parte egiziana non arrivano segnali positivi. Per cui anche noi non siamo molto fiduciosi. Però speriamo che si possa ottenere qualcosa e che si possano fare passi in avanti. Non c’è solo il diritto, da parte della famiglia Regeni ad ottenere giustizia. Ci sono anche la dignità e la credibilità internazionale del nostro Paese che sono in gioco. L’Italia non può essere un paese che non protegge la vita dei propri cittadini e soprattutto non ottiene giustizia quando uno dei propri cittadini viene ucciso barbaramente dagli apparati di un altro Stato”.