A Montecatini Terme, dove aveva scelto di vivere dopo una vita passata tra inchieste e udienze, si è spento a 73 anni Roberto Pennisi, magistrato che ha attraversato quarant’anni di lotta alla criminalità organizzata. Era malato da tempo, ricoverato all’ospedale di Pescia. I funerali si terranno oggi pomeriggio, alle 15, nella chiesa di San Francesco, a pochi passi dalla casa in cui, da pensionato, continuava a leggere le relazioni antimafia come fossero ancora fascicoli d’indagine.
Sigonella, il battesimo dello Stato
Pennisi era nato ad Acireale, in provincia di Catania, nel 1952. Entrò in magistratura nel 1978, quando la Sicilia era ancora terreno di sperimentazione per la Repubblica. A Siracusa si trovò a gestire il versante giudiziario della crisi di Sigonella, nell’ottobre del 1985, quando lo scontro tra l’Italia di Craxi e gli Stati Uniti sul destino dei dirottatori dell’Achille Lauro mise alla prova la sovranità nazionale. Per un giovane sostituto procuratore fu un battesimo nel cuore dello Stato: capì che la legge, per restare tale, deve reggere alle pressioni della politica e della diplomazia.
Negli anni successivi lavorò alle procure di Reggio Calabria, Livorno e Firenze, ma fu in Calabria che maturò la sua idea più nitida di giustizia: la mafia è un’economia. Alla Dda di Reggio si occupò per tredici anni di ’ndrangheta, appalti e porto di Gioia Tauro, crocevia del traffico mondiale di merci e cocaina. Davanti aveva un sistema criminale che si era già vestito di legalità, capace di infilarsi negli appalti e nella logistica come un operatore qualsiasi, muovendosi su bilanci, consulenze, società di comodo.
La faccia pulita del crimine
Il passaggio alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo lo portò a Roma, dove divenne uno dei riferimenti per i crimini ambientali e il traffico illecito di rifiuti. Da magistrato delegato al “gruppo rifiuti” della DNAA curava i capitoli sulle ecomafie nelle relazioni annuali. Nelle audizioni in Parlamento e nei convegni ripeteva che il crimine ambientale «ha la faccia pulita»: lo praticano professionisti in giacca e cravatta, pronti a sfruttare zone grigie e ritardi amministrativi per trasformare lo smaltimento in rendita e ricatto.
Con anni di anticipo sul dibattito pubblico, Pennisi indicò la trasmigrazione delle mafie verso il Nord, nelle province industriali di Lombardia, Trentino ed Emilia, dove ricchezza e complessità normativa offrivano ai clan un terreno di conquista: capannoni, cave, impianti, cooperative, subappalti. Lontano dai riflettori, continuava a raccogliere dati, incrociare mappe di società e cantieri, convinto che la forza dello Stato fosse la continuità del lavoro, la pazienza dell’analisi, la precisione delle prove.
Dopo il pensionamento si era ritirato a Montecatini. Trovava ironico che la città delle terme fosse il suo approdo dopo decenni di immersione nel fango morale delle inchieste. Da lì continuava a scrivere, a commentare, a indicare i punti ciechi: la prevenzione, le filiere dei rifiuti, il controllo degli appalti.
Di Pennisi resta il tratto severo, la voce calma, e un’eredità concreta: l’idea che le mafie si contrastano nelle aule, certo, ma anche dove si decide come produrre, costruire, smaltire. Dal giorno in cui a Sigonella vide la legge resistere alla forza, agli anni in cui denunciò il saccheggio dell’ambiente da parte dei colletti bianchi, la sua storia racconta la stessa battaglia: la sovranità della legge sulle convenienze di tutti gli altri poteri.