Il modo in cui il giro di prostituzione era organizzato non era molto dissimile da quello delle vecchie “case di tolleranza”. Il contatto coi clienti, infatti, non avveniva in strada: non c’era da battere il marciapiede, perché gli incontri si svolgevano in appartamenti, lontano da occhi indiscreti e grazie a locatori in combutta con la banda. La chiave di tutto era internet: tramite alcune pagine web, le prestazioni venivano pubblicizzate e presentate a volte come centri per massaggi. Chi cercava sesso a pagamento non doveva far altro che chiamare i numeri di telefono indicati. E all’altro capo del filo, a rispondere c’era appunto la “maitresse”, che come detto era il ruolo ambito dalle giovani prostitute, l’obiettivo finale: segno di una situazione in cui anche alzare una cornetta appariva più allettante di una vita di schiavitù sessuale.
Eppure le ragazze erano consapevoli della “professione” che sarebbero andate a svolgere. A contattarle provvedeva un reclutatore, che operava in Cina nella regione dello Zhejiang. E loro partivano, entravano in Italia da clandestine e andavano incontro al loro destino. Senza nemmeno la pur piccola consolazione di guadagnare qualcosa: la maggior parte dei soldi, infatti, andava agli sfruttatori, sia in Italia che in Cina. Di conseguenza, qualunque fosse la ragione che le portava ad abbandonare il loro paese, tutto quello che trovavano era un’esistenza da moderne schiave. Fino all’arresto della banda, che resta tuttavia la soluzione ad uno tra i tanti casi simili, in cui giovani ragazze vengono illuse col sogno di una vita migliore, e si ritrovano per strada o magari in appartamenti come questi, comunque prigioniere.