L’insostenibile pesantezza delle grandi opere italiane

di Sergio Rizzo per Il Corriere della Sera

Che le cose non funzionino affatto come dovrebbero, lo sappiamo da mezzo secolo. Basta rileggere quello che disse in una intervista al Corriere negli anni Settanta Fedele Cova, uno dei progettisti dell’Autostrada del Sole. «Il segno del cambiamento», ricordava, «si ebbe nel 1964. Prima mi avevano lasciato tranquillo, forse perché non credevano nelle autostrade, forse perché non si erano neppure accorti di quello che stava accadendo. Ma, nel ‘64, con la fine dell’Autosole, cominciarono gli appetiti, le interferenze…».

Fu lì che si perse l’innocenza del dopoguerra. E che le opere pubbliche cominciarono a diventare la greppia per politici e affaristi. Più che la loro utilità, interessavano i soldi che potevano far girare. Oppure il ritorno in termini di consenso politico. Memorabile la vicenda del tracciato dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, i cui lavori iniziarono nel 1963, che con scarso rispetto della logica fu fatto inerpicare nel collegio elettorale del ministro dei Lavori pubblici, il socialista Giacomo Mancini.

 

Se si vuole trovare una spiegazione alla nostra cronica incapacità di costruire opere pubbliche in tempi umani e a costi civili, non si può che partire da qui. L’Autostrada del Sole venne realizzata in poco più di otto anni, al ritmo di 94 chilometri l’anno con un costo medio, in euro attuali, di 4 milioni al chilometro. Per la Salerno-Reggio Calabria, poco più che una semplice statale lunga 443 chilometri invece dei 794 dell’Autosole, di anni ne servirono 11, e il costo a chilometro era già salito a 5,5 milioni. L’attuale rifacimento della stessa autostrada, iniziato nel 1997, potrà forse dirsi completato in vent’anni, a un costo chilometrico esattamente valutabile soltanto alla fine: ma certo non molto distante da un quintuplo di quello di quando l’arteria fu costruita. Per non parlare della famosa variante di valico, il nuovo tratto appenninico dell’Autosole, del quale si parla da vent’anni e non è ancora percorribile. Passando dalle strade alle ferrovie, la musica non cambia. Un recente studio di Intesa Sanpaolo ha appurato che il costo medio di un chilometro di alta velocità made in Italy è triplo rispetto alla Spagna, alla Francia e al Giappone. Vari sono i motivi: non ultimo le compensazioni che vengono imposte dai Comuni attraversati dai binari. Ma oltre al costo economico c’è da mettere nel conto anche la perdita di tempo: per realizzare l’alta velocità ferroviaria in Italia c’è voluto un ventennio. Fatto sta che nel 2012 avevamo 876 chilometri di linee veloci, contro 2.125 della Francia e 3.230 della Spagna: e pensare che la prima tratta europea per i supertreni, la direttissima Roma-Firenze, era stata costruita proprio in Italia, all’inizio degli anni Settanta. Tempi lungi, costi assurdi, procedure complicatissime che sembrano ideate apposta per favorire i ritardi e le spese faraoniche, ma anche la corruzione. E una profondissima ipocrisia: regole minuziose e controlli accurati sulla carta, assenza di regole e assenza di controlli nella realtà. Come sta a dimostrare proprio il caso del Mose. Dove per giunta gli incarichi di collaudo venivano assegnati, oltre che a manager come il presidente dell’Anas Pietro Ciucci e ad altri suoi colleghi esperti in strade, addirittura a persone prive di laurea come il geometra Gualtiero Cesarali.

Non c’è opera pubblica la cui vicenda non sia scandita da varianti infinite, ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, arbitrati nei quali lo Stato finisce inevitabilmente per soccombere. Senza che le uniche due necessarie certezze siamo mai certe: il tempo e il prezzo. Il risultato è che mentre continuiamo a divorare il nostro meraviglioso paesaggio con brutta e inutile edilizia abitativa, non facciamo le opere pubbliche necessarie. E anche questo è un costo. Enorme. Chi si è preso la briga di calcolare i costi del «non fare» ha stimato che la mancata costruzione di ferrovie e autostrade che hanno fatto scivolare l’Italia in fondo alla classifica dei Paesi europei per dotazione infrastrutturale ci abbia causato una perdita di 278 miliardi di euro. A cui va aggiunta, ovviamente, la fattura delle opere pubbliche mai completate: record, anche questo, tutto italiano. Ne sono state censite 395, con una punta di 150 nella sola Sicilia.

Numeri e circostanze che alla vigilia del 2015, e con gli scandali delle tangenti dell’Expo e del Mose, ci mettono ancora di più di fronte a un interrogativo cruciale: l’Italia è in grado di realizzare opere pubbliche importanti? È una domanda a cui dobbiamo dare una risposta, se vogliamo considerarci a pieno titolo un Paese sviluppato che fa parte dell’Unione Europea. Ma qui, purtroppo, gli esempi lasciano poche speranze. Il ponte sullo Stretto di Messina, per esempio. Un’infrastruttura controversa, sulla quale le opinioni nel Paese erano assolutamente discordi. Che però ha offerto al mondo uno spettacolo inverosimile. Messa nel 2001 dal governo di Silvio Berlusconi in cima alla lista delle opere strategiche, cancellata con un colpo di spugna nel 2006 dal governo di Romano Prodi, riesumata nuovamente da Berlusconi nel 2008 e affossata dallo stesso governo del Cavaliere nel 2011. Per essere poi definitivamente sepolta con uno stratagemma ideato dall’abbinata fra politica e burocrazia quando a Palazzo Chigi è arrivato Mario Monti. Il tutto dopo aver fatto una gara internazionale e aver firmato otto anni fa un contratto miliardario con imprese italiane e internazionali. Uno scherzetto già costato ai contribuenti 350 milioni fra progetto e mantenimento in vita della società Stretto di Messina. E con le penali il conto potrebbe arrivare anche a un miliardo: senza che ci resti un solo mattone.